L'articolo è pubblicato sul numero di marzo di Mondo Agricolo, la rivista di Confagricoltura
Di Anja Zanetti
Santa Maria La Nave è l’azienda vitivinicola di Sonia Spadaro Mulone, alle pendici dell’Etna dove si aggrappano le radici di vitigni autoctoni, da cui si produce un massimo di ottomila bottiglie l’anno di soli Cru e Super Cru
Voleva fare l’archeologa e si è riscoperta custode di vitigni “reliquia”, quasi estinti. Sonia Spadaro Mulone, 39 anni, originaria della provincia di Siracusa, è proprietaria e timoniera di Santa Maria La Nave, boutique winery di nicchia e di eccellenza sull’Etna. Una “Indiana Jones” del vino buono che ha recuperato antiche tecniche di produzione, tramandate nei secoli dai viticoltori del luogo.
Preservare la biodiversità esaltandola è il suo primo obiettivo, perseguito attraverso una produzione incentrata unicamente sulla viticoltura estrema di vitigni autoctoni, coltivati in regime biologico e biodinamico. “Sono io a definirmi una custode. Mi sono innamorata di questi luoghi e ho voluto dedicarmi alla salvaguardia della loro unicità. Sono mamma di tre bimbi e della mia azienda, un’altra figlia a cui dedico tante energie, amore e pazienza. Vorrei mantenerla di dimensioni ridotte, puntando sulla qualità e non sulla quantità - ci racconta Sonia, proseguendo senza esitazione -. Ho scoperto una gemma di autenticità”.
La produzione della cantina di Spadaro cona ottomila bottiglie negli anni più produttivi, di soli Cru e Super Cru. “Ogni bottiglia è numerata e condivisa con appassionati e intenditori di rari vitigni autoctoni, in tutto il mondo. All’estero siamo negli Usa, in California, New York e Utah - aggiunge l’imprenditrice -, in Giappone, Australia, Hong Kong, Francia, Spagna. Mi affido a una rete di distributori, ma tutto passa attraverso relazioni dirette, rapporti costruiti con cura. Chi sceglie i nostri vini lo fa perché si innamora della storia di Santa Maria La Nave. I miei clienti vengono qui a conoscere la mole di lavoro e fatica che c’è dietro ad ogni bottiglia”.
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L’oasi in cui sorge Santa Maria La Nave è incastonata nei boschi e si sviluppa lungo due versanti dell’Etna. “Idda” (“lei”, in dialetto siciliano) è da sempre una “vulcanessa” per chi è del posto. Questa energia femminile dirompente si riverbera anche nella storia di Santa Maria La Nave che, infatti, prende il nome da due donne centrali nella vita di Sonia: la mamma e la suocera.
“Nave” è la contrada sul fianco nord-ovest del vulcano, a oltre mille metri di altitudine dove si snoda uno dei due vigneti estremi vanto dell’azienda: Vigna Casa Decima. L’altro, Vigna Monte Ilice, è orientato a sud-est, lungo una pendenza che parte a 720 metri e arriva a 850 metri. Suolo vulcanico nerissimo, aspro, al quale si aggrappano radici autentiche, preservate dalla fillossera.
“Il terreno impervio che ospita i nostri vigneti – spiega l’imprenditrice – ha protetto le piante dal parassita che a fine ‘800 ha distrutto numerosi vitigni e ha fatto sì che i viticoltori del luogo cominciassero a praticare innesti con la vite americana, più resistente. Le piante a questa altitudine sono rimaste pure, a radice classica”. La cura è il filo conduttore che ha guidato lo sviluppo di Santa Maria La Nave, frutto di diversi passaggi generazionali di amore, più che di sangue.
Tutto inizia quando Sonia decide di occuparsi del piccolo vigneto della famiglia del marito, lavorando in vigna e certificando il vino prodotto come biologico. Da lì la voglia di crescere. “Ho avuto fortuna. Cercavo un vigneto antico, con una storia da raccontare, e ho incontrato Don Alfio, contadino gentiluomo di 80 anni che aveva messo in vendita il suo appezzamento. L’ho trovato per caso, vedendo un cartello fuori dalla sua tenuta, ed è stata subito empatia. Sono intervenuta per gradi, insieme a lui, per restaurare e mettere in sicurezza piante di oltre 180 anni”.
L’ostinata attitudine alla conservazione prosegue. Con la Facoltà di Agraria dell’Università di Catania, Sonia si sta occupando di un altro vitigno estinto, il “Terribbile”, che deve il suo nome proprio alla caparbietà con cui resiste alla fillossera. “Ne sto facendo un campetto varietale, in purezza, ne verranno circa 800 bottiglie”. Gli effetti del cambiamento climatico, però, si fanno sentire anche qui. “Il 2023 è stata un’annata difficile.
Con una primavera particolarmente altalenante, siamo passati dalla neve fuoristagione a un caldo siccitoso che ha bruciato tutto. La peronospora, poi, è stata molto aggressiva. Avremo prodotto al massimo 5mila bottiglie. Considerando, però, che in zona c’è chi ha sofferto tagli fino al 90 per cento, non mi lamento, anche perché l’uva ha avuto la caparbietà di rimanere integra e donare un vino di qualità eccelsa. Ancora una volta posso dirmi fortunata o, meglio, protetta, da questo ecosistema unico”.
Il 2023 è stato anche l’anno dell’apertura della nuova cantina. Un gioiello di bio-architettura, a Trecastagni, in provincia di Catania, che coniuga materiali antichi e tradizioni vinicole del territorio e le più nuove tecnologie. “Perché dal passato si impara sempre, il presente è qui ora, mentre il futuro lo si costruisce giorno per giorno, consapevoli che la cura e il rispetto per la natura, la sua struggente bellezza e la biodiversità salveranno il nostro Pianeta”.