Prodotti ittici dell’acquacoltura nazionale a rischio a causa dell’impennata dei costi di produzione, soprattutto energetici, alimentari e di trasporto. La congiuntura legata alla guerra in Ucraina ha fatto aumentare di oltre il 50% i costi medi di produzione del settore, ma per alcuni fattori di produzione le spese sono più che raddoppiate e raggiungono vette insostenibili.
A lanciare l’allarme è Andrea Fabris, direttore di API (Associazione piscicoltori italiani): “Fino al 2021, il costo maggiore di un impianto di acquacoltura era rappresentato dalle spese di alimentazione che incidevano per circa il 50-65% sul totale. Oggi questa percentuale si è ridotta perché è stata superata dall’aumento di altre voci di spesa, prima fra tutti quella dell’energia”.
Entrando nel dettaglio i costi dell’energia elettrica, utilizzata ad esempio per pompare l’acqua nelle vasche di allevamento, hanno raggiunto aumenti del 200%-300%. Anche il prezzo dell’ossigeno liquido è lievitato del 250%. Sono cresciuti del 35% i costi dei mangimi, senza contare l’aumento delle spese per i trasporti, la logistica e gli imballaggi o il costo degli avannotti. Per chi lavora in mare c’è anche il rincaro dei carburanti agricoli, cui si aggiungono, per tutti gli impianti ittici, gli incrementi di listini dei pezzi di ricambio e delle manutenzioni.
“Già prima della crisi ucraina-russa, da dicembre 2021- gennaio 2022, si erano registrati – spiega Fabris – i primi aumenti dei costi di alimentazione e dell’energia, ma a dare il colpo di grazia è stata la siccità che sta penalizzando soprattutto gli allevamenti ittici d’acqua dolce in alcune zone del Nord Italia. Si è registrata una maggiore necessità di utilizzo dell’acqua dal sottosuolo per alimentare le vasche con conseguenti aggravi sulla bolletta dell’elettricità”.
Tutto questo ha inciso non solo sui costi di produzione diretti che hanno subito un incremento medio del 50%, ma anche sulla programmazione produttiva del settore.
L’itticoltura, come sottolinea Fabris, ha dei cicli di produzione molto lunghi che vanno dai 15 ai 24 o 36 mesi: ad esempio occorrono dai 12 ai 15 mesi per gli allevamenti di trote, per spigole e orate si arriva a 24 mesi fino al massimo dei 7 anni richiesti dal caviale. “A causa della siccità e dei costi elevati di produzione gli allevatori saranno costretti ad anticipare le vendite senza poter mantenere prodotti in stock negli allevamenti – spiega Fabris –. Tenderanno, infatti, a commercializzare pesci di piccola pezzatura rinunciando a una produzione di pregio di una certa dimensione che viene richiesta in determinate periodi dell’anno come le feste natalizie, ma che necessita di una programmazione”.
“Chiediamo quindi al Governo un immediato intervento a sostegno del settore - sottolinea il direttore di API -. Ci sono disponibilità, in questo senso, legate all’utilizzo dei fondi europei per il settore. Mi riferisco alle risorse del Feampa, il Fondo europeo per la pesca e l’acquacoltura. Chiediamo che parte di queste risorse servano compensare gli aumenti dei costi di produzione in modo da garantire la sopravvivenza delle imprese del comparto”.
L’Italia ha prodotto nel 2021oltre 62mila tonnellate di pesci allevati in più di seicento siti produttivi generando quasi 300 milioni di euro di giro d’affari. L’itticoltura del nostro Paese vanta alcuni primati, come quello di primo produttore Ue di trota iridea con 37mila tonnellate, primo produttore di caviale da storione in Europa e secondo nel mondo. Per quanto riguarda le spigole e le orate in Italia se ne producono più di 17mila tonnellate anche se i volumi non coprono il fabbisogno interno. (F.B.)
IN ALLEGATO LE TABELLE SULLA PRODUZIONE