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Mondo Agricolo news

Ritorno al futuro... in Sardegna

24 November 2020
Ritorno al futuro... in Sardegna -  Mondo Agricolo news | Confederazione Generale dell'Agricoltura Italiana

Dopo 42 anni si è a buon punto nel lungo e faticoso percorso per debellare la PSA in Sardegna,, che tanto è costato all’economia isolana. La malattia è quasi del tutto sconfitta e lo ha confermato recentemente lo stesso presidente della Regione Solinas. Il tema della peste suina africana (PSA) nell’isola lo affronta Banne Sio, di Confagricoltura Sardegna, proiettandosi in un futuro lontano che però, per fortuna, si sta avvicinando velocemente. Siamo nel 2020, ancora non si possono vendere le carni di provenienza sarda nei mercati extraregionali e questo racconto è un messaggio di speranza ed ottimismo che si spera non sia molto distante da una futura realtà.

In questo 2030 la Peste Suina Africana (PSA) è, fortunatamente, solo un lontano ricordo. Ma c’è stato un periodo in cui la Sardegna ha dovuto convivere per tanti, troppi, anni con questo virus. Dal 1978 e fino al 2019, la Sardegna è stata martoriata dalla presenza della PSA. Una malattia davvero intollerabile perché la Sardegna veniva additata come appestata e la sua presenza, per un tempo così lungo, ha impedito lo sviluppo di un intero comparto che aveva, come poi si è dimostrato, grandi potenzialità economiche.

Infatti, per far fronte alla grave recrudescenza della PSA nei suini domestici e selvatici in Sardegna, la Commissione Europea aveva adottato una serie di misure di protezione, per evitare la diffusione ad altri territori dell’UE. Tali misure prevedevano il divieto assoluto di spedizione dalla Sardegna verso i territori extraregionali di carne e prodotti derivati provenienti da allevamenti regionali. In deroga a tali misure, dal 13 luglio 2005 al 17 dicembre 2011, era stata consentita la spedizione di prodotti a base di carne suina, originari di aziende situate al di fuori della Zona ad Alto Rischio (storicamente per la PSA in Sardegna veniva identificata una Zona ad Alto Rischio, una parte del territorio in cui era oggettivamente più alto il rischio di nuovi casi di malattia), a condizione che soddisfacessero specifici requisiti in materia di biosicurezza. A partire dal mese di dicembre del 2011, a causa della recrudescenza della malattia, tale deroga era stata sospesa e tutto il territorio regionale era stato considerato come territorio a rischio per cui era stata vietata l’esportazione dalla Sardegna di qualsiasi prodotto fresco o lavorato prodotto con carne suina proveniente dagli allevamenti sardi. In poche parole per 41 anni, a parte una breve finestra temporale, dalla Sardegna non è potuta uscire carne suina di origine sarda.

Inoltre, all’interno della Sardegna, in presenza di focolai accertati, venivano istituite delle zone di protezione e di sorveglianza intorno ai focolai stessi per un raggio rispettivamente di almeno 3 e 10 km, all’interno delle quali venivano applicate numerose e severe restrizioni. Nelle aziende in cui veniva confermata la presenza della malattia l’autorità sanitaria competente provvedeva all’immediato abbattimento di tutti i suini presenti e alla loro eliminazione, mentre in quelle ricadenti all’interno delle zone di protezione e di sorveglianza gli animali non potevano essere movimentati all’esterno dell’azienda stessa per un periodo di almeno quaranta giorni successivi al focolaio, per le aziende in zona di protezione, e di trenta giorni, per quelle in zona di sorveglianza, con conseguenze economiche gravissime. Infatti, nelle aziende sede di focolaio con l’abbattimento di tutti i suini il danno, oltre al valore degli animali abbattuti, si concretizzava con un mancato reddito correlato col divieto di ripopolamento. Nelle aziende ricadenti all’interno delle zone di protezione e di sorveglianza, invece, si assisteva a un considerevole aggravio dei costi di gestione dell’allevamento, connessi in particolare con l’alimentazione del maggior numero di animali presenti, e dal mancato reddito conseguente all’impossibilità di vendere gli animali o di avviarli al macello e dal deprezzamento che questi subivano al momento della vendita.

Per sottrarsi a questo forte condizionamento, o limitarne quantomeno gli effetti, molte imprese salumiere isolane, anche se il loro mercato di riferimento, per la maggior parte di esse, era solo quello regionale, avevano scelto di utilizzare per le proprie produzioni carni non provenienti da allevamenti sardi, con effetti sul sistema produttivo regionale che è facile immaginare.

Fino al 2013, e dunque nei primi 35 anni di PSA, sono state spese ingenti risorse finanziarie (si stimano oltre 600 milioni di euro), ma non si era mai fatto nulla per proibire o controllare l’allevamento illegale. All’epoca, infatti una delle cause del persistere di questa malattia nel territorio regionale era da ascriversi alla persistenza dell’allevamento illegale e brado non controllato, in contiguità con il selvatico, e all’assenza di un sistema di controllo efficace nell’azione di repressione del fenomeno.

La musica era cambiata, finalmente, nel 2014 quando la Giunta Pigliaru decise di intraprendere, per la prima volta dopo 35 anni, una seria lotta al pascolo brado illegale e rilanciare il comparto suinicolo. Ciò che aveva determinato un cambio di rotta, rispetto al passato, era stata la costituzione dell’Unità di Progetto (UdP) per l’eradicazione della PSA in Sardegna. L’UdP, vera novità sul piano organizzativo, per la prima volta aveva messo in stretto collegamento tutti i soggetti istituzionali, e non solo – determinante in tal senso il coinvolgimento di allevatori e cacciatori - interessati dalla lotta al virus. Un coordinamento che a suo tempo aveva permesso di attivare un lavoro di squadra mai visto sul piano legislativo e quindi operativo nelle diverse azioni intraprese per debellare la malattia.

Decisiva l’attuazione del Piano straordinario di eradicazione, elaborato e attuato dall’Unità di Progetto a partire dal mese di gennaio del 2015, con le misure di contrasto all’allevamento dei maiali bradi illegali, di controllo ufficiale lungo la filiera suinicola, assieme a quelle relative ad una corretta gestione della caccia al cinghiale. Un’attività che aveva richiesto notevole coraggio anche perchè molti tra politici, opinionisti, intellettuali si erano schierati contro gli abbattimenti. Anche una parte dell’opinione pubblica, fortunatamente minoritaria, voleva rimanere a su connotu. La maggior parte della popolazione, era invece insofferente alle prepotenze, al non rispetto delle regole, al perseguimento di interessi e privilegi privati in terreni pubblici, alla distruzione e depauperamento dell’ambiente, alla mancanza di rispetto degli animali e del territorio. Anche questa nuova sensibilità e il fatto che la popolazione avesse acquisito piena consapevolezza dei danni, sia in termini sanitari che economici, provocati nei confronti del settore dalla gestione irregolare dei suini, aveva dato forza all’UdP e tra il 2015 e il 2019 furono abbattuti oltre 5.000 maiali allo stato brado.

Le misure adottate avevano portato alla definitiva eradicazione della PSA sia nei suini domestici che nei cinghiali. L’ultima presenza del virus della PSA in Sardegna risale all’ormai lontano mese di aprile 2019. Da allora fino ad oggi, a distanza di ormai undici anni, non è più comparsa.

Importanti si erano dimostrati anche gli incentivi economici agli allevatori regolari e l’inserimento dei suini nella misura del Benessere animale. Fondamentale è stata la formazione, grazie alla quale allevatori e trasformatori hanno raggiunto altissimi livelli di qualificazione e specializzazione professionale. Altrettanto fondamentale era risultato il ruolo dell’informazione e della comunicazione nel territorio nonché la sensibilizzazione della popolazione riguardo alle conseguenze causate dagli allevamenti clandestini di suini.

Dopo questi sforzi, nel 2020, l’UE aveva deciso di rimuovere, gradualmente, le misure restrittive ed era stata ripristinata la commercializzazione extraregionale delle carni e dei prodotti ottenuti da suini allevati in Sardegna. La Sardegna era diventata in quegli anni un modello di lotta alla PSA a livello internazionale.

In questi ultimi dieci anni c’è stata una netta inversione di tendenza con una crescita economica significativa del comparto suinicolo sardo.

Insomma, mentre prima di sconfiggere la PSA il settore suinicolo in Sardegna era moribondo e a rischio di estinzione, oggi, nel 2030,  è un fiore all’occhiello dell’economia isolana.

Nel 2020 in Sardegna erano presenti circa 180.000 capi suini allevati in circa 14.000 allevamenti. L’elevatissimo numero di allevamenti e il moderato numero di capi allevati, indicavano come questa attività zootecnica rappresentasse, per la maggior parte delle aziende, un aspetto marginale. La quasi totalità di questi allevamenti, infatti, era orientata al consumo familiare mentre gli allevamenti professionali erano circa 300. Oggi, nel 2030, si allevano 600.000 capi, e gli allevamenti professionali, anche se nella maggior parte dei casi, di moderate dimensioni sono oltre 3.000 e si caratterizzano per una altissima specializzazione e professionalità.

Mentre nel 2020 l’orientamento produttivo largamente predominante era quello del lattonzolo, la produzione del magrone da macelleria era marginale e praticamente inesistente quella del suino pesante, oggi l’allevamento del maialetto da latte resta ancora quello più importante in termini numerici, ma è cresciuta la produzione sia del magrone da macelleria e soprattutto quella del suino pesante per far fronte alle richieste dei salumifici locali volte ad un mercato di qualità.

Questo grazie ai tre marchi comunitari il cui percorso che prima del 2020 era molto accidentato con la sconfitta della PSA è risultato in discesa. La Sardegna oggi infatti può contare su tre marchi di qualità: DOP Maialetto di Sardegna, DOP Prosciutto di Sardegna, IGP Salsiccia di Sardegna.

Oggi dunque finalmente i sardi, e i turisti, possono mangiare davvero un porchetto nato e allevato in Sardegna, mentre fino al 2020 veniva spacciato come sardo nei ristoranti, negli agriturismi e perfino nei così detti pranzi con i pastori, un maialetto di provenienza nazionale o estera che diventava sardo solo perché macellato in loco. Lo stesso dicasi dei prodotti di salumeria.

Nel 2020 eravamo di fronte a un paradosso.

Negli anni seguenti tutto il settore della trasformazione ha beneficiato della sconfitta della PSA. I salumifici, poco meno di 50 nel 2020 oggi sono circa 80. Mentre fino al 2020 quasi tutti i salumifici si approvvigionavano di carni suine nazionali e/o provenienti da mercati U.E., oggi una importante percentuale dei salumi è fatta da carni suine prodotte in Sardegna.

Ancora oggi, nel 2030, la salsiccia rimane il salume più rappresentativo e caratteristico della nostra regione ed è quello più prodotto in termini quantitativi ma si registra una costante crescita nella produzione di prosciutti. Il Prosciutto di Sardegna DOP ormai in termini qualitativi rappresenta una seria minaccia al Jamon iberico. Così come il Maialetto di Sardegna DOP ha superato di gran lunga, in termini di richiamo, il Cochinillo di Segovia.

Il Prosciutto di Sardegna DOP, che si vende nei mercati internazionali a una media di 100€/kg, deve la sua fama soprattutto al suino di Razza sarda, che nel 2020 era praticamente estinto con pochissimi capi iscritti nel registro anagrafico. Il piano di valorizzazione adottato in questi anni ha permesso non solo la salvaguardia di una razza suina autoctona ma soprattutto ha costituito l’elemento trainante per tutta la filiera suinicola regionale. Questa produzione identitaria, con una genetica realmente legata alla cultura, all’identità e alla nostra biodiversità è stato un elemento determinante per la crescita economica del comparto.

Infine è da segnalare un netto cambiamento culturale. Finalmente è stata vinta quella resistenza culturale e qui luoghi comuni che volevano i maialetti allevati allo stato brado e senza nessun controllo come quelli più prelibati. Niente di più sbagliato. Nel 2030 tutti, ormai, si sono resi conto che mettersi in regola, allevare in aree di allevamento semibrado confinato, dotate delle infrastrutture necessarie a garantire la biosicurezza (anche in terreni comunali gravati da uso civico), rispettare le regole del benessere animale, non solo permette l’accesso a finanziamenti regionali e comunitari ma soprattutto consente una crescita culturale e umana per gli stessi allevatori oltre a creare una spirale economica virtuosa, lotta allo spopolamento - in quasi tutti i comuni dell’interno si segnala una inversione in tal senso - occupazione soprattutto giovanile, ricchezza diffusa.

I paesi che erano più resistenti al cambiamento, quelli definiti ad alto rischio quando c’era la PSA, oggi, nel 2030, sono quelli che beneficiano maggiormente di questo sviluppo economico. Soprattutto in questi posti sconfiggere la PSA ha creato ricchezza, occupazione, ricaduta economica, turismo, miglioramento della qualità della vita, benessere generale. Nel 2030.

Banne Sio

 

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