
L'articolo è disponibile sull'ultimo numero di Mondo Agricolo online, la rivista di Confagricoltura
di Francesco Bellizzi
La crisi dello Stretto di Suez produrrà aumenti dei costi, legati alla logisitca che si vedranno in primavera. De Michelis: “Il 22% del traffico via mare passa da Genova”. L' allarme di Fruitimprese sui rischi per i mercati interni
Inizia ad essere difficile tenere il conto degli attacchi alle navi mercantili e militari nel Mar Rosso. Tra azioni di pirateria e lancio di missili, il gruppo armato sciita yemenita degli Houthi ha iniziato, con l'appoggio dell'Iran, a bersagliare petroliere e mercantili dirette in Israele attraverso il Mar Rosso. Una reazione all'invasione della Striscia di Gaza da parte di Tel Aviv dopo il raid del 7 dicembre da parte di Hamas nei kibbuz a sud del Paese. Da lì in poi è iniziata una battaglia a bassa tensione con le forze armate statunitensi e britanniche.
Al centro di questo scontro c'è il canale di Suez, l'alveo artificiale aperto nel 1869 in territorio egiziano che collega il Mediterraneo con il Mar Rosso. Un guaio per il commercio marittimo internazionale che sta allontanando il traffico delle merci da questo percorso per tornare alla vecchia circumnavigazione del continente africano attraverso il Capo di Buona Speranza. Un cambio di tragitto per bypassare lo stretto di Bab el-Mandeb - ricavato il Gibuti e dello Yemen per collegare Mar Rosso e Oceano Indiano - ma che sta costando un allungamento dei tempi di viaggio. Dai 26 giorni di media che separano Singapore da Rotterdam, si passa a 36 giorni (un tempo di percorrenza che mette a rischio il trasporto dei prodotti maggiormente deperibili). Il risultato immediato è l'aumento dei costi per gli armatori e quindi, per chi noleggia i container, e dei premi assicurativi necessari.
Una seconda conseguenza, di più lungo periodo, è che la rotta africana possa deviare il traffico delle merci direttamente verso Rotterdam saltando, così, i porti italiani. Dall'inizio delle ostilità, il Canale di Suez viene attraversato da 250 navi al giorno rispetto alle 400 a cui è abituato. Da inizio novembre a fine gennaio sono state oltre 150 le imbarcazioni commerciali che hanno scelto la circumnavigazione dell'Africa. Qatar Energy, ad esempio, il secondo esportatore mondiale di Gnl, ha sospeso la rotta (fonte: Sole 24 Ore, 15 gen 2024) .
Il Mar Rosso è attraversato dal 12% delle merci globali, di cui il 14,6% di cereali (circa 80 tonnellate di grano all'anno); il 14,5% di fertilizzanti; il 10 di petrolio e l'8 di gnl. Poco meno della metà dell'import-export italiano (per un valore di 377 miliardi) viaggia via mare. Il di questo traffico il 40% attraversa il Canale di Suez: in un recente rapporto sull'economia del mare, Srm e Alexbank (rispettivamente, centro studi e controllata egiziana del gruppo Intesa Sanpaolo) calcolano il valore di questi scambi in 150 miliardi.
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Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha spiegato che i porti italiani più esposti alla crisi sono Genova, La Spezia, Trieste e Gioia Tauro. Gli effetti già si vedono: le navi provenienti dal Mar Rosso sono calate drasticamente dal 28 dicembre, mentre il genovese sta assistendo ad una riduzione del loro numero. “L'Italia è tra i Paesi più esposti al blocco del transito delle navi nel canale di Suez”, commenta il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti. Gli fa eco Luca De Michelis, presidente della Confederazione ligure. “Il 22% delle tonnellate di merci italiane movimentate via mare passa da Genova - dice a Mondo Agricolo - . Le regioni più colpite dalla crisi del traffico marittimo genovese sono Emilia Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Piemonte. Gli effetti sono già evidenti. Per chi esporta si parla di un incremento del 25% dei costi per le singole tratte”.
I principali danni riguardano l'agroalimentare, in particolare prodotti come il Parmigiano Reggiano, vino (“per il comparto vitivinicolo il blocco delle navi verso i mercati asiatici è un ulteriore colpo all'equilibrio economico delle aziende e all'export del settore”, ha commento il vicepresidente di Confagricoltura, Emo Capodilista a Next Economy su Giornale Radio), legname e, soprattutto, la frutta fresca: mele (dirette in India), kiwi e agrumi. Il mondo agricolo italiano è in allarme. Le maggiori preoccupazioni sono rivolte al periodo primaverile: marzo, infatti, è il mese delle stipule dei nuovi contratti per la spedizione delle merci; ed è molto probabile che i prezzi verranno ritoccati in rialzo. Per farsi un'idea dell'entità del problema sono utili i dati di Fruitimprese sui rapporti commerciali italiani con i Paesi extra Ue coinvolti dalla tratta marittima.
Nel 2022 l'Italia ha spedito in Medio Oriente 350.000 tonnellate di prodotti freschi per un valore di 400 milioni. Principalmente mele verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi. In India e Sud Est Asiatico, invece, sono arrivate 120.000 tonnellate di prodotti (valore: 100 milioni), in prevalenza mele e kiwi. Quindi, se la crisi dello Stretto di Suez dovesse prolungarsi, in ballo ci sarebbero 500 milioni di euro di esportazione. “La produzione italiana di frutta fresca rappresenta il 75% dell'export Ue verso la Penisola Arabica”, ci spiega il direttore di Fruitimprese, Pietro Mauro. “Una deviazione di lunga durata delle navi dal canale di Suez verso il Capo di Buona Speranza creerebbe un serio problema di concorrenza con le produzioni d'Oltreoceano, che si troverebbero avvantaggiate dovendo affrontare costi minori”.
L'andamento dei costi dei noleggi di container dà ragione a Mauro: i dati delle ultime settimane includono rincari decisamente maggiori per i porti italiani, rispetto a quelli da sostenere la tratta di Rotterdam, destinazione dei carichi provenienti dalle Americhe. “A ciò vanno aggiunte le ripercussioni su 150.000 tonnellate di prodotti Ue che rimarrebbero sul mercato interno”. Poi, un ulteriore aspetto non meno importante. “Corriamo il pericolo che le produzioni, soprattutto di agrumi, di Turchia ed Egitto - chiosa il direttore di Fruitimprese - restino bloccate nei porti europei e quindi, vengano immesse nei mercati interni. Ciò darebbe il la a un'inflazione produttiva causata dei loro costi di produzione e quindi dei prezzi, spesso più competitivi rispetto ai nostri”.
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